Intervista

Vittorio Giusti CEO General Insurance AVIVA

 

 

 

 

Come organizzazione e capacità supportano la Digital Transformation?

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un profondo cambiamento dei modelli organizzativi, che ha preceduto ed è poi stato amplificato e accelerato dall’impatto della pandemia Covid19.

Da tempo la trasformazione digitale impone infatti un ripensamento dei tradizionali approcci “a cascata”, in cui le attività sono in buona parte serializzate, seguendo i pattern funzionali delle aziende e la gerarchizzazione piramidale dei poteri decisionali.

In altre parole, veniamo da un’epoca dominata da una scienza (non troppo esatta) che possiamo definire “comitatologia”, con le informazioni che nascono nei contesti operativi, si aggregano sotto forma di presentazioni PPT, passano attraverso riunioni di allineamento, SAL e steering committees continuando a salire verso l’alto per arrivare finalmente a incontrare le decisioni che poi calano nuovamente verso il basso.

È evidente che in un mondo in cui la velocità di esecuzione o, per meglio dire, di adattamento al contesto in continua mutazione è il fattore critico di successo, sono indispensabili approcci di tipo iterativo, seguendo la prospettiva cosiddetta Agile, e soprattutto praticando un de-layering organizzativo importante, accorciando o in certi casi appiattendo la catena decisionale.

L’altro fattore critico di successo è il superamento di un radicato, implicito, persistente assunto di base culturale delle aziende italiane: l’intolleranza all’errore.

Troppo spesso progetti che, di steering committee in steering committee, diventano sempre più farraginosi, sempre più distanti dallo scopo, sempre meno on time e on budget, vengono mantenuti in vita anche quando appare evidente che il case for change che li aveva determinati non è più raggiungibile e, in certi casi, neppure più attuale.

Si avrà vero cambiamento solo quando sarà condivisa, e accettata, la filosofia del Fail Fast, Fail Small, con gli attori del cambiamento che avranno la possibilità di prendere decisioni e in grado di rispondere alle sfide con collaborazione orizzontale e open innovation.

 

Come riorganizzare l’attività lavorativa in Smart Working?

Conversando con colleghi di altre geografie mi sono reso conto che smart working è una definizione prevalentemente italiana di quello che in altri Paesi viene più comunemente chiamato remote working, flexible working o agile working.

E dato che il termine smart significa “svelto”, “acuto”, “brillante”, “intelligente”, mi viene da pensare che, per contrasto, il lavoro in presenza in azienda sia… poco intelligente!

Scherzi a parte, la mia sensazione è che sino ad oggi, si sia data priorità a due dimensioni importanti, ma non le uniche, del lavoro da remoto.

Ci si è preoccupati infatti di rendere tecnologicamente possibile l’accesso a sistemi e processi, con dotazioni laptop, VPN, connessioni, e si sono esplorate le dimensioni giuslavoristiche (è telelavoro? Si pagano o no gli straordinari? Si deve timbrare il cartellino?)

Smart working è molto di più: è anzitutto l’abbattimento del requisito della compresenza che limita la possibilità di interagire con più persone in tempi e spazi non tradizionali.

Smart working è la fine del controllo gerarchico del tempo di lavoro, orientandosi verso schemi di self-management in cui l’accountability individuale si sviluppa quando, contemporaneamente, cresce la fiducia dei line manager verso le persone coordinate.

Smart working significa modificare radicalmente i layout di uffici e aziende, ma allo stesso tempo rivedere anche gli spazi domestici, dove oggi troppo spesso i genitori in smart contendono la connessione wi-fi e l’unica scrivania o il tavolo di cucina con i figli in didattica a distanza.

Smart working significa aprire un dibattito tra la necessità di colmare il digital divide, dando a tutti la possibilità di accesso alla rete come servizio ormai primario, e l’altrettanto importante necessità di garantire anche il diritto alla disconnessione, se è vero, come è vero, che non c’è più la tradizionale suddivisione tra 8 ore di lavoro, 8 per lo svago e la vita sociale, e 8 per il riposo.

E’ un cambiamento epocale del rapporto tra persona e organizzazione. E siamo solo all’inizio.

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